paragrafo quinto

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Questa conclusione che credo di poter tirare con decisione non è tale tuttavia da non fare rientrare in una descrizione del mondo contemporaneo i
processi di disaggregazione intensa [o interna] che hanno accompagnato la decadenza delle vecchie forme. È chiaro che la decrescita di intensità di un movimento d’insieme non significa che, in maniera generale, l’inerzia guadagni la società.

Nessuno dubita che l’attuale civiltà stia conoscendo un’agitazione quanto meno pari a quella del Medioevo.
Ma proprio questa agitazione dev’essere distinta dal movimento d’insieme.
Infatti si tratta, secondo l’espressione che ho impiegato, di processi di disintegrazione. Man mano che il movimento d’insieme decresce d’intensità i movimenti individuali e soprattutto i movimenti funzionali si accrescono e si distaccano sempre più dal movimento d’insieme. È di certo difficile rappresentare come un fenomeno di decadenza un’intensità crescente dei movimenti individuali. Ma che cresca l’intensità dei movimenti funzionali che sono per definizione servili, per definizione subordinati, è molto più grave. Significa che l’utile la vince a poco a poco sull’esistenza, che l’esistenza si subordina e lentamente si asservisce. Che cosa importa che in queste condizioni gli individui sfuggano alla costrizione che fa pesare su di loro l’adesione al movimento d’insieme? Essi infatti, per la maggior parte, non sono disintegrati che per entrare nella gravitazione di un movimento funzionale qualsiasi. È possibile rappresentare assai rapidamente e con una precisione sufficiente come le cose sono avvenute. Nel Medioevo, quello che io chiamo movimento funzionale corrispondeva alle corporazioni, ai corpi di mestiere. Si trattava allora di organizzazioni con un carattere di totalità. Non erano affatto limitate alla loro propria attività. Costituivano delle vere esistenze gravitanti attorno ad una fonte sacra analoga a quella della società globale. Potevano avere un santuario, un sacro patrono, nella fattispecie un santo (la parola latina sanctus significa sacro), delle feste a carattere religioso. Non si distinguevano neppure chiaramente dalle società segrete, dalle confraternite di cui ho parlato l’ultima volta (bisogna ricordare che un’organizzazione corporativa è stata all’origine dell’ordine attuale dei massoni).

Questo carattere esistenziale dei corpi di mestiere è scomparso man mano che la loro importanza nella
società è aumentata. In effetti, traendo i loro temi di esistenza essenziali dalla società globale, le corporazioni riconoscevano il loro carattere subordinato in quanto la loro azione era funzionale ma, allo stesso tempo, esse partecipavano coi loro emblemi e le loro feste all’esistenza totale della società, al suo movimento d’insieme. I corpi di mestiere che hanno seguito le corporazioni hanno cessato di ammettere il loro carattere subordinato. Hanno cessato di riconoscere una realtà nell’esistenza d’insieme per la quale un tempo operavano. Io non mi schiero tra le fila reazionarie e non faccio qui un’apologia del passato, ma ci tengo a rappresentare il deficit pietoso di questa evoluzione. Per il fatto stesso che i lavoratori (non parlo qui in particolare degli operai ma di tutti coloro che fanno qualcosa a qualunque livello della scala sociale), per il fatto stesso che i lavoratori cessavano di riconoscere la loro subordinazione ad una realtà esterna al loro lavoro, essi facevano del lavoratore stesso la fine dell’attività umana e non solo del lavoratore ma del lavoro. In altri termini, confondevano la funzione con l’esistenza. Facevano entrare la vita umana nel regno dell’economia, ovvero nel regno della servitù.

È in queste condizioni che l’individuo si è liberato dai legami connessi col movimento d’insieme sociale: egli non s’è dunque liberato che per entrare in una servitù altrettanto grande. Cessando di appartenere ad un mondo fantastico e tragico, ad un mondo del destino umano, il lavoratore libero s’è votato al suo lavoro: si è messo a confondere la sua esistenza con la sua funzione, a prendere la sua funzione per la sua esistenza. Non è sfuggito al movimento d’insieme che per assorbirsi in un movimento funzionale ipertrofico, semplice e vuoto automatismo che si è sostituito all’esistenza piena.

A dire il vero, non bisognerebbe esagerare il carattere di caduta nella servitù proprio di questa trasformazione. Tutto è avvenuto in un allentamento generale delle costrizioni. L’assorbimento nell’attività funzionale ha da più vicino il valore di uno stupefacente, di un anestetico. Il lavoro ha, in una certa misura, la possibilità di privare l’esistenza umana del gusto del destino, della morte, della tragedia. D’altra parte, l’assenza del gusto tragico è generatrice del riso. Qui bisogna precisare: gli elementi tragici della vita non sono scomparsi ma hanno smesso di essere vissuti in comune, hanno smesso di essere sostenuti in feste di sacrificio e di morte che ne fanno un principio di esaltazione. Nella depressione caratteristicamente legata al lavoro regolare, questi elementi vengono allontanati molto provvisoriamente, ma allorché fanno per una volta irruzione nell’esistenza reale, questa esistenza è più disarmata che mai dinanzi ad essi. Ma l’anestesia generale, l’assenza di movimento centrale intenso è compensata dal movimento periferico che costituisce il riso. La rappresentazione in comune degli elementi tragici riunisce, mentre il riso è legato a una dispersione. La tragedia provocava al centro dell’esistenza una fenditura pesante. Essa conferiva alle relazioni umane che si formavano attorno ad esse una specie di gravità esaltata. Il riso rende le relazioni umane immediate, essa le priva di ogni riserva. Così si è formata la società attuale nella quale il fatto dominante è diventato il lavoro, così come ha usurpato il posto dell’esistenza profonda, così come funge da anestetico, così come introduce per contrasto relazioni umane vuote e senza riserva, condite di piaceri senza intensità.

Tuttavia, il mondo del lavoro, col favore della decomposizione generale dinanzi al vuoto lasciato dal deperimento di ogni esistenza profonda, il mondo del lavoro si è diviso in due campi contrapposti. Da un lato si trovano i profittatori che hanno i mezzi necessari per conservare un devoto ricordo delle forme di esistenza forte del passato e soprattutto che sono legate al mantenimento di quelle tra tali forme che sono rimaste, che assicurano ancora la struttura sociale indispensabile al vantaggio degli uni, allo sfruttamento degli altri. Gli sfruttati si trovano, invece, nel campo avverso – estranei ostili ad ogni struttura, non riconoscendo strettamente come valore umano altro che il loro stesso valore che si riduce strettamente al lavoro. Tutto va relativamente bene finché il vecchio equilibrio è possibile. Si costituisce un sistema precario in cui trionfano il lassismo, i compromessi, le agevolazioni, le dilazioni, le licenze. Ma se le circostanze portano all’abbattimento della vecchia struttura, bisogna ricostituire un nuovo movimento d’insieme e questo movimento d’insieme non può essere ricostituito che a partire dall’unica realtà che ha validità, ossia il lavoro. Il lavoro, che nello stato di decomposizione aveva ritenuto di costituire un mondo a sé stante, si sente allora abbandonato alle proprie risorse, doppiato soltanto dall’organizzazione politica, dal partito che gli era servito da porta-parola e da mezzo d’azione nella lotta, il lavoro si accorge in queste condizioni che gli manca tutto. È un luogo comune dire che la guerra civile ha reso difficile al comunismo russo l’organizzazione di un’esistenza sociale nuova, ma è vero il contrario. È solo grazie alla lotta militare che il nuovo mondo è potuto nascere. È la lotta e non il lavoro che aveva fatto del partito degli operai una forma di organizzazione in possesso già di un certo carattere di totalità. È nel corso della lotta che una bandiera è comparsa a riunire le folle. È nel corso della lotta che i morti sono caduti dando un valore sacro a questa bandiera. È nell’intensità della lotta militare che il partito si è condensato in quanto fonte di esistenza della società intera. Ma fin dall’inizio la sovranità non è stata cosa del partito ma del lavoro, cosa dei lavoratori. All’inizio il partito non era altro che l’espressione dei lavoratori. Non voleva né poteva trarre il suo movimento da sé. Voleva che il suo movimento fosse il movimento della produzione. Se si riduceva a se stesso, aveva la forza, essendo azione e lotta, ma non aveva senso. Il lavoro non poteva diventare il servitore del partito. Il partito non poteva essere altro che il servitore del lavoro. Senza dubbio, queste considerazioni non hanno potuto essere fatte da coloro che hanno agito. D’altronde non sono possibili che a partire dal momento in cui si è stabilita una distinzione formale tra movimento d’insieme e movimento funzionale. Esse non sono affatto d’importanza fondamentale. Rendono conto di tutte le difficoltà e del carattere imbarazzato del percorso che caratterizza la politica sovietica da vent’anni. È impossibile ad un’organizzazione centrale della società essere al servizio del lavoro. È il lavoro che necessariamente è al servizio di ogni organizzazione centrale vivente. Le condizioni di partenza obbligavano così il potere sovietico non solo ad un’ipocrisia sempre crescente, ma ad un’evoluzione strutturale che non lascia sussistere granché della sua formazione primitiva. Si trattava di trasformare ciò che altro non era che la funzione di una funzione in esistenza, l’organizzazione della lotta dei lavoratori in una realtà sociale viva, esistente, violentemente dinamica. Occorre distinguere a questo riguardo varie fasi. All’inizio, il movimento altro non è che il movimento rivoluzionario, ossia conformemente alle definizioni che ho dato le ultime due volte, un movimento della stessa natura di quella della tragedia – la forma fondamentale della tragedia essendo l’uccisione del re. Ma qui già interviene l’incompatibilità del mondo del lavoro con l’esistenza tragica. L’uccisione dello zar, anziché essere l’oggetto di un commemorazione – ci si ricordi di Robespierre che chiede che il 21 gennaio, data dell’esecuzione di Luigi XVI, diventi festa nazionale, - l’uccisione dello zar è stata letteralmente sottratta. Il potere non fu dunque in alcun modo conferito al popolo uccisore del re ma al lavoro. Senza dubbio una sostituzione tanto opposta alle correnti di forze naturali non riuscì del tutto e Lenin, malgrado tutti i suoi sforzi contrari e fors’anche in parte grazie ai suoi sforzi, si è trovato divinizzato in quanto eroe liberatore – ossia in quanto uccisore del re. Ma il fondo delle cose è rimasto al di fuori del campo della coscienza. Il fondamento rivoluzionario, il fondamento tragico del potere, in breve tempo, fu relegato al rango di realtà quasi verbale. Il campo si è dunque trovato aperto pressoché senza restrizioni alle istituzioni militari sviluppate per la necessità di vincere al di fuori e di reprimere all’interno. Nessuna consistenza potendo essere assunta dagli elementi tragici che avevano abdicato sin dall’inizio dinanzi alla pretesa realtà del lavoro, il lavoro non potendo creare un mondo, il potere ha assunto in poco tempo una struttura quasi esclusivamente militare che si è trovata essa stessa aperta un bel giorno ai valori associati naturalmente all’ordine militare, alla patria, alla commemorazione del passato e delle sue potenze. Il partito si è lentamente evoluto nel senso della totalità dell’esistenza. Si è militarizzato ed associato strettamente all’esercito. Si è soprattutto dato un capo posto al di fuori di ogni discussione possibile, cresciuto nell’ombra sacra di Lenin morto, ma padre dei popoli come lo zar mentre Lenin rimaneva eroe.
Nello stesso tempo, il movimento funzionale del lavoro ha perduto la sua pretesa all’autonomia sotto la maschera del lirismo sviluppato nel corso della realizzazione del piano quinquennale. È l’industria pesante che è stata sostituita in superficie all’armamento propriamente detto, all’industria di guerra, quando c’è stato bisogno di addestrare i lavoratori in un’impresa che superasse il puro e semplice lavoro. Ma è chiaro che il piano quinquennale, che ha pericolosamente esaurito le risorse della Russia per parecchi anni, non poteva avere senso, che lo sviluppo forsennato di un’industria pesante immediatamente improduttiva non poteva avere senso se la potenza dell’esercito non fosse diventata da allora la preoccupazione essenziale di chi possedeva il potere. E sarebbe difficile, credo, citare un popolo che abbia sacrificato tanto alla sua organizzazione militare quanto il mondo russo – ufficialmente il mondo del lavoro.

Non posso, nel tempo a mia disposizione, sviluppare ulteriormente questa descrizione del gioco delle forze sacre così come si è sviluppato ai nostri giorni. Ma credo di averne sufficientemente dimostrato gli impulsi. Lo sviluppo dell’attività funzionale ha ridotto a quasi nulla il movimento d’insieme, l’esistenza sociale profonda e reale. Questo sviluppo è stato tale da compromettere le possibilità di durata di ogni organizzazione. Essendosi prodotta la rottura in un luogo, la società ha dovuto ricostituirsi tutt’intera riducendo il mondo del lavoro ad una servitù del mondo militare. Altrove, la semplice minaccia di rottura ha imposto questa caduta in servitù diretta, requisito di ogni distruzione.
È quanto è accaduto col nome di fascismo o di nazionalsocialismo.