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PAUL LAFARGUE - La Religione del Capitale

PAUL LAFARGUE
LA RELIGIONE DEL CAPITALE

(traduzione di Andrea Chersi)

Ci piacerebbe immaginare PAUL LAFARGUE (1842-1911) come il genero picchiatello, il componente più divertente e simpatico della famiglia di KARL MARX. Così non è, purtroppo, e gli sprazzi di geniale sarcasmo dei suoi scritti, così come la sua stessa morte (si suicida assieme alla moglie Laura Marx) sono solo scandalosi momenti di una vita tutta dedicata alla diffusione del verbo marxiano.
Presentiamo la nostra traduzione di LA RELIGION DU CAPITAL, del 1887: è la continuazione e il coronamento della sua opera più famosa, IL DIRITTO ALL'OZIO e sancisce la centralità dell'uomo, più che del lavoro.


IL CONGRESSO DI LONDRA

IL CONGRESSO DI LONDRA

I progressi del socialismo preoccupano le classi possidenti d'Europa e d'America. Qualche mese fa, uomini provenienti da tutti i paesi civili si riunirono a Londra, allo scopo di trovare tutti insieme i mezzi più efficaci per arrestare il pericoloso dilagare delle idee socialiste. Tra i rappresentanti della borghesia capitalista d'Inghilterra spiccavano lord Salisbury, Chamberlain, Samuel Morley, lord Randolph Churchill, Herbert Spencer, il cardinale Manning. Il principe di Bismarck, trattenuto per una crisi etilica, aveva inviato il suo consigliere personale, l'ebreo Bleichroeder. I grandi industriali e i finanzieri dei due mondi, Vanderbilt, Rothschild, Gould, Soubeyran, Krupp, Dollfus, Dietz-Monin, Schneider erano presenti personalmente o si erano fatti sostituire da uomini di fiducia. Mai si erano viste personalità di idee e di nazionalità tanto differenti comprendersi tanto fraternamente. Paul Bert era seduto al fianco di Monsignor Freppel, Gladstone stringeva la mano a Parnell, Clémenceau discuteva con Ferry e Moltke chiacchierava amichevolmente sulle possibilità di una guerra di rivincita con Déroulède e Ranc.


IL CATECHISMO DEI LAVORATORI

IL CATECHISMO DEI LAVORATORI

Catechismo dei lavoratori

Domanda: - Come ti chiami?

Risposta: - Salariato.

D: - Chi sono i tuoi genitori?

R: - Mio padre era salariato così come mio nonno e il mio bisnonno; ma i miei progenitori erano servi e schiavi. Mia madre si chiama Povertà.

D: - Da dove vieni, dove vai?

R: - Vengo dalla povertà e vado alla miseria, passando per l'ospedale, dove il mio corpo servirà da materiale di esperimento per le nuove medicine e da oggetto di studio per i dottori che curano i privilegiati del Capitale.

D: - Dove sei nato?

R: - In una soffitta, sotto il tetto di una casa che mio padre e i suoi compagni di lavoro avevano costruito.

D: - Qual'è la tua religione?

R: - La religione del Capitale.

D: - Quali doveri ti impone la religione del Capitale?

R: - Due doveri principali: il dovere della rinuncia e il dovere del lavoro.

La mia religione mi comanda di rinunciare ai miei diritti di proprietà sulla terra, nostra madre comune, sulle ricchezze delle sue viscere, sulla fertilità della sua superficie, sulla sua misteriosa fecondazione per mezzo del calore e della luce del sole. Mi comanda di rinunciare ai miei diritti di proprietà sul lavoro delle mie mani e del mio cervello. Mi comanda poi di rinunciare al mio diritto di proprietà sulla mia stessa persona; dal momento in cui varco il portone della fabbrica, io non mi appartengo più, sono cosa del padrone.

La mia religione mi comanda di lavorare dalla fanciullezza fino alla morte, di lavorare alla luce del sole e alla luce del gas, di lavorare di giorno e di notte, di lavorare sulla terra, sotto terra e sul mare; di lavorare sempre e ovunque.

D: - Ti impone anche altri doveri?

R: - Sì. Di prolungare la quaresima per tutto l'anno; di vivere di privazioni, non soddisfando la mia fame che a metà; di limitare tutti i bisogni della mia carne e di soffocare tutte le aspirazioni del mio spirito.

D: - Ti proibisce determinati cibi?

R: - Mi vieta di assaggiare la selvaggina, il pollame, la carne bovina di prima, seconda e terza qualità, di gustare il salmone, l'astice, il pesce delicato; mi vieta di bere il vino genuino, l'acquavite e il latte così come esce dalle mammelle della mucca.

D: - Quali cibi ti consente?

R: - Il pane, le patate, i fagioli, il merluzzo, le aringhe affumicate, gli scarti di macelleria, la carne di vacca, di cavallo, di mulo e gli insaccati. Per riprendere in fretta le mie forze esauste, mi permette di bere del vino sofisticato, dell'acquavite di patate e dello scassafegato di barbabietola.

D: - Quali doveri ti impone verso te stesso?

R: - Di lesinare sulle mie spese; di vivere nel sudiciume e nel putridume; di indossare abiti stracciati, rattoppati, rammendati; di utilizzarli fino alla trama, finché non cadono in cenci, di camminare senza calze, dentro scarpe sfondate, che bevono l'acqua sporca e ghiacciata delle strade.

D: - Quali doveri ti impone nei riguardi della tua famiglia?

R: - Di proibire a mia moglie e alle mie figlie qualsiasi civetteria, qualsiasi eleganza e ogni raffinatezza; di ricoprirle di stoffe ordinarie, appena sufficienti per non urtare il pudore delle dame; di insegnar loro a non tremare d'inverno vestite di cotonina e a non soffocare d'estate nelle soffitte; di inculcare ai miei bambini i sacri princìpi del lavoro, perché possano, fin da piccoli, guadagnarsi da vivere e non essere a carico della società; di insegnargli a coricarsi senza cena e senza lampada e di abituarli alla miseria che è la loro sorte nella vita.

D: - Quali doveri ti impone verso la società?

R: - Di accrescere la fortuna sociale col mio lavoro innanzitutto e coi miei risparmi poi.

D: - Che cosa ti ordina di fare dei tuoi risparmi?

R: - Di portarli nelle casse di risparmio statali perché servano a colmare il deficit di bilancio(2) o di affidarli alle società fondate dai filantropi della finanza affinché loro li prestino ai nostri padroni. Dobbiamo sempre mettere i nostri risparmi a disposizione dei nostri padroni.

D: - Ti permette di toccare i tuoi risparmi?
R: - Il meno possibile; ci raccomanda di non insistere quando lo Stato si rifiuta di restituirli(3)e di rassegnarci quando i filantropi della finanza, anticipando le nostre richieste, ci annunciano che le nostre economie sono andate in fumo.

D: - Hai dei diritti politici?

R: - Il Capitale mi concede l'innocua distrazione di eleggere i legislatori che forgiano delle leggi per punirci; ma ci proibisce di occuparci di politica e di ascoltare i socialisti.

D: - Perché?

R: - Perché la politica è privilegio dei padroni, perché i socialisti sono dei furfanti che ci derubano e ci ingannano. Ci dicono che l'uomo che non lavora non deve mangiare, che tutto appartiene ai salariati perché sono loro che hanno prodotto tutto quanto, che il padrone è un parassita da sopprimere. La santa religione del Capitale ci insegna, al contrario, che lo spreco dei ricchi crea il lavoro che ci dà da mangiare; che i ricchi mantengono i poveri; che se non ci fossero i ricchi, i poveri morirebbero. Ci insegna anche a non essere così scemi da credere che le nostre mogli e le nostre figlie saprebbero portare le sete e i velluti che tessono, loro che non vogliono agghindarsi altro che di cotonina di cattiva qualità e che noi non saremmo capaci di bere i vini naturali e mangiare i buoni bocconi, noi che siamo abituati a tirare la cinghia e a bere porcherie.

D: - Chi è il tuo Dio?

R: - Il Capitale.

D: - Esiste da sempre?

R: - I nostri preti più dotti, gli economisti ufficiali, affermano che esiste dall'inizio del mondo; essendo a quel tempo molto piccolo, Giove, Geova, Gesù e gli altri falsi dèi hanno regnato al suo posto e nel suo nome; ma dall'anno 1500 circa, egli è cresciuto e non finisce di crescere in massa e in potenza; oggi domina il mondo intero.

D: - Il tuo Dio è onnipotente?

R: - Sì. Il suo possesso dà tutta la felicità della terra. Quando distoglie il suo volto da una famiglia e da una nazione, queste vegetano nella miseria e nel dolore. La potenza del Dio-Capitale cresce a misura che cresce la sua massa; tutti i giorni conquista nuovi paesi; tutti i giorni ingrossa il gregge di salariati che, per tutta la loro vita, si consacrano ad aumentare la sua massa.

D: - Chi sono gli eletti del Dio-Capitale?

R: - I padroni, i capitalisti, i possidenti.

D: - Come ti ricompensa il Capitale, tuo Dio?

R: - Dandomi sempre e sempre del lavoro, a me, a mia moglie e ai miei piccoli figli!

D: - E' questa la tua unica ricompensa?

R: - No. Dio ci permette di soddisfare la nostra fame assaporando cogli occhi le appetitose vetrine di carne e di cibi che noi non abbiamo mai gustato, che noi non gusteremo mai e di cui si nutrono gli eletti e i sacerdoti. La sua bontà ci permette di riscaldare le nostre membra intorpidite dal freddo, ammirando le calde pellicce e i vestiti pesanti con cui si coprono gli eletti e i sacerdoti. Ci concede inoltre il delicato piacere di rallegrare la nostra vista contemplando il passaggio in carrozza lungo i viali e le piazze pubbliche della sacra tribù dei possidenti e dei capitalisti lucidi, paffuti, panciuti, agiati, circondati da una torma di valletti gallonati e di cortigiane dipinte e colorate. Noi allora ci inorgogliamo al pensiero che se gli eletti godono delle meraviglie di cui noi siamo privati, esse sono opera delle nostre mani e dei nostri cervelli.

D: - Gli eletti sono di una razza diversa dalla tua?

R: - I capitalisti sono impastati colla stessa argilla dei salariati; ma loro sono stati scelti tra migliaia e milioni.

D: - Che cosa hanno fatto per meritare questa promozione?

R: - Nulla. Dio dimostra la sua onnipotenza riversando i suoi favori su colui che non se li è affatto guadagnati.

D: - Il Capitale è dunque ingiusto?

R: - Il Capitale è la giustizia stessa; ma la sua giustizia supera la nostra debole comprensione. Se il Capitale fosse obbligato ad accordare la sua grazia a coloro che se la meritano, non sarebbe libero, la sua potenza avrebbe dei limiti. Il Capitale non può affermare la sua onnipotenza che prendendo i suoi eletti, i padroni e i capitalisti, dal mucchio degli incapaci, dei fannulloni e dei buoni a nulla.

D: - Come ti punisce il tuo Dio?

R: - Condannandomi alla disoccupazione; allora sono scomunicato; mi è proibita la carne, il vino e il fuoco. Noi moriamo di fame, mia moglie e i miei figli.

D: - Quali sono le colpe che devi commettere per meritare la scomunica della disoccupazione?

R: - Nessuna. Il Capitale decreta a suo piacere la disoccupazione senza che la nostra scarsa intelligenza possa afferrarne la ragione.

D: - Quali sono le tue preghiere?

R: - Io non prego con le parole. Il lavoro è la mia preghiera. Ogni preghiera a parole disturberebbe la mia preghiera efficace che è il lavoro, l'unica preghiera che sia apprezzata, perché è la sola utile, la sola che avvantaggia il Capitale, la sola che crea plusvalore.

D: - Dove preghi?

R: - Ovunque: sul mare, sulla terra e sotto terra, nei campi, nelle miniere, nelle fabbriche e nelle officine.
Perché la nostra preghiera venga accolta e ricompensata, dobbiamo deporre ai piedi del Capitale la nostra volontà, la nostra libertà e la nostra dignità.
Al suono della campana, al fischio della macchina dobbiamo accorrere; e, una volta in preghiera, dobbiamo, come automi, muovere braccia e gambe, piedi e mani, ansimare e sudare, tendere i muscoli e sfibrare i nostri nervi.
Dobbiamo essere umili di spirito, sopportare docilmente la collera e le ingiurie del padrone e dei capimastri, perché loro hanno sempre ragione, anche quando ci sembrano avere torto.
Dobbiamo ringraziare il padrone quando lesina sul salario e prolunga la giornata di lavoro; perché tutto ciò che fa è giusto e per il nostro bene. Dobbiamo essere onorati quando il padrone e i suoi capoccia accarezzano le nostre mogli e le nostre figlie, perché il nostro Dio, il Capitale, gli concede il diritto di vita o di morte sui salariati così come il diritto di andare a letto con le salariate.

Piuttosto che lasciarci sfuggire un lamento, piuttosto di permettere alla collera di far bollire il nostro sangue, piuttosto che scendere in sciopero, piuttosto che ribellarci, dobbiamo sopportare ogni sofferenza, mangiare il nostro pane ricoperto di sputi e bere la nostra acqua sporca di melma; perché per punire la nostra insolenza, il Capitale arma il padrone di cannoni e di sciabole, di prigioni e di penitenziari, di ghigliottina e di plotoni di esecuzione.

D: - Riceverai una ricompensa dopo la morte?

R: - Sì, una grandissima ricompensa. Dopo la mia morte, il Capitale mi lascerà sedere e riposare. Non soffrirò più il freddo né la fame; non dovrò più preoccuparmi né del pane quotidiano né del domani. Godrò del riposo eterno della tomba.


IL SERMONE DELLA CORTIGIANA

IL SERMONE DELLA CORTIGIANA

la cortigiana

(Il manoscritto che mi è stato recapitato è incompleto, mancando le prime tre pagine; dovevano di certo contenere una invocazione al Dio-Capitale, il protettore di quelli che vengono disprezzati. La regola che mi sono imposto di essere un semplice copista, mi vieta qualsiasi tentativo di ricostruzione.
Delle note a margine lasciano supporre che l'estensore del sermone, il legato del papa, abbia assunto come collaboratori il principe di Galles, due ricchi industriali noti al mondo intero per le loro sete e le loro stoffe, Bonnet e Pouyer-Quertier, e una famosa cortigiana, che ha ospitato nel suo letto aristocratici cosmopoliti, Cora Pearl ). P.L.

Gli uomini che vagano nelle tenebre della vita, guidati dal chiarore vacillante della gracile ragione, scherniscono e insultano la cortigiana; la inchiodano ignominiosamente alla gogna della loro morale; la umiliano colle loro virtù di facciata, aizzano contro di lei la collera l'indignazione; lei è la schiava del male e la regina della scelleratezza, la macina del frantoio dell'abbrutimento, lei corrompe la gioventù in fiore e insudicia i capelli bianchi della vecchiaia, toglie lo sposo alla sposa, succhia con le sue labbra alterate e insaziabili l'onore e la fortuna delle famiglie.

Oh, sorelle mie! La brutale rabbia e la bassa invidia sporcano di fiele amaro
e fangoso la nobile immagine della cortigiana e tuttavia, ormai diciannove secoli fa, l'ultimo dei falsi Dei, Gesù di Nazareth, rialzava, dall'obbrobrio degli uomini, Maria Maddalena e la faceva sedere in mezzo ai santi e ai beati, nello splendore del suo paradiso.

Prima dell'avvento del Vero Dio, prima dell'avvento del Capitale, le religioni che si sono disputate la terra e gli Dei che si sono succeduti nella testa dell'uomo, comandavano di rinchiudere la sposa nel gineceo e di non permettere che all'etera di mordere i frutti dell'albero della scienza e della libertà. La grande dea di Babilonia, Mylitta-Anaitis, "l'abile incantatrice, la seducente prostituta", ordinava al suo popolo di fedeli di onorarla con la prostituzione. Quando Budda, l'Uomo-Dio, arrivava a Vesali, andava ad abitare nella casa della padrona delle prostitute sacre, dinanzi alla quale facevano la fila i preti e i magistrati coi loro abiti da cerimonia. Geova, il Dio funesto, ospitava nel suo tempio le cortigiane. (4)

Illuminati dalla fede, gli uomini delle società primitive divinizzavano la cortigiana; ella simboleggiava la forza dell'eterna natura che crea e che distrugge.

I padri della Chiesa cattolica, che per secoli ha divertito con le sue leggende l'umanità bambina, cercavano l'ispirazione divina nella compagnia delle prostitute. Quando il papa riuniva in concilio i suoi preti e i suoi vescovi per discutere un dogma della fede, guidate dal dito di Dio, le cortigiane di tutta la cristianità accorrevano; esse nascondevano sotto le loro sottane lo Spirito Santo; esse illuminavano l'intelletto dei Dottori. Il Dio dei cristiani armò del potere di fare e disfare i papi infallibili, Teodora, la meretrice imperiale.

Il Capitale, nostro Signore, assegna alla cortigiana un posto ancor più elevato: non è più a dei papi dalla testa ciondolante che essa comanda, ma a migliaia di operai giovani e vigorosi, maestri di ogni arte e mestiere: essi tessono, ricamano, cuciono, lavorano il legno, il ferro e i metalli preziosi, tagliano i diamanti, raccolgono dal fondo dei mari il corallo e le perle, producono in pieno inverno i fiori della primavera e i frutti dell'autunno, costruiscono i palazzi, decorano le mura, dipingono le tele, scolpiscono il marmo, scrivono drammi e romanzi, compongono opere, cantano, suonano e danzano per occupare il suo tempo libero e i suoi capricci. Giammai Semiramide, giammai Cleopatra, giammai queste regine potenti ebbero al loro servizio uno stuolo tanto numeroso di lavoratori, abili in ogni mestiere, esperti in ogni arte.

La cortigiana è l'ornamento della civiltà capitalista. Se mai ella dovesse cessare di ornare la società, allora quel po' di gioia che rimane ancora a questo mondo annoiato e triste, svanirebbe; i gioielli, le pietre preziose, le stoffe imperlate e ricamate diventano inutili come balocchi; il lusso e le arti, questi figli dell'amore e della bellezza, sono insipidi; la metà del lavoro umano perde valore. Ma finché si comprerà e si venderà, finché il Capitale rimarrà il padrone delle coscienze e il rimuneratore dei vizi e delle virtù, la merce d'amore sarà la più preziosa e gli eletti del Capitale bagneranno il loro cuore nella coppa glaciale delle labbra dipinte della cortigiana.

Se la ragione non avesse rincretinito l'uomo, se la fede avesse aperto le porte del suo giudizio, egli avrebbe capito che la cortigiana, in cui essi vedono la lussuria dei ricchi e dei potenti, è uno dei motori del Dio capitale per muovere i popoli e trasformare le società.

Nei tempi bui del medioevo, quando il Capitale, nostro Signre, a somiglianza del bimbo che palpita sordamente nel seno della donna, si elaborava misterisamente nella profondità delle cose economiche, quando neppure una bocca profetizzava la sua nascita, quando l'animo umano ignorante dell'avvento di un Dio, non sussultava di allegria, allora tuttavia il Capitale cominciava a dirigere le azioni degli uomini. Soffiava nello spirito dei cristiani d'Europa il selvaggio furore che li precipitava sulle strade d'Asia in bande più fitte dei battaglioni di formiche. A quei tempi, i capi degli uomini erano i rozzi signori feudali, che vivevano nelle corazze come le tartarughe nel loro carapace, cibandosi di carni pesanti e di bevande dense, non apprezzando altro piacere che i colpi di lancia, non conoscendo altro lusso che una spada ben temprata. Per smuovere quei bruti, il nostro Dio dovette abbassarsi al livello della loro intelligenza più pesante del piombo: suggerì loro le crociate, di correre in Palestina a liberare le pietre di un sepolcro che non è mai esistito. Dio voleva portarli ai piedi delle cortigiane d'oriente, estenuarli col lusso e il godimento, inculcare nel loro cuore la passione divina, l'amore dell'oro. Quando ritornarono nelle loro tetre magioni, dove ululavano i gufi, i sensi ancora turbati dall'oro e dalla porpora delle feste, dai profumi d'Arabia e dalle molli carezze delle cortigiane depilate, provarono disgusto per le loro femmine goffe e villose, che filavano e figliavano e non sapevano altro: si vergognarono della loro barbarie e come una giovane madre prepara la culla per il bimbo che nascerà, essi costruirono le città del Mediterraneo, crearono le corti ducali e reali dell'Europa, per l'avvento del Dio-Capitale.

In verità vi dico, la cortigiana è più cara al nostro Dio che al finanziere il denaro dell'azionista; è la sua figlia amatissima, quella che tra tutte le donne ubbidisce più docilmente al suo volere.
La cortigiana ha a che fare con ciò che non si può pesare né misurare, con la cosa immateriale che sfugge alle sacre leggi dello scambio: vende l'amore, come il droghiere smercia sapone e candele, come il poeta spaccia l'ideale. Ma vendendo l'amore, la cortigiana si vende; ella dà al sesso della donna un valore, il suo sesso partecipa quindi delle qualità del nostro Dio, diventa una parte di Dio,è Capitale. La cortigiana incarna Dio.

Voi siete più ingenui dei vitelli che pascolano nei prati, oh poeti, oh drammaturghi, oh romanzieri, voi che ingiuriate la cortigiana perché ella non concede l'uso del suo corpo che contro denaro sonante, voi che la trascinate nel fango perché vende ad un prezzo elevato le sue tenerezze. Volete dunque che ella profani la parte divina che è il suo corpo, che lo renda più vile dei ciottoli di strada? Voi, moralisti, che siete porcili per ingrassare i vizi, voi le rimproverate di preferire l'oro zecchino al cuore bruciante d'amore. Filosofi ottusi, voi prendete dunque la cortigiana per uno sparviero che si rimpinza di carne palpitante? Voi tutti che siete soffocati dall'avarizia, credete dunque che la cortigiana sia meno desiderabile perché la si acquista? Non acquistate forse il pane che sostiene il corpo, il vino che rallegra il cuore? Non si acquista forse la coscienza del deputato, le preghiere del prete, il coraggio del soldato, la scienza dell'ingegnere, l'onestà del cassiere?

Dio-Capitale maledice le prostitute, pazze del loro corpo, che si vendono per qualche franco, qualche soldo ai lavoratori e ai soldati; più temibile della peste, martirizza i bruti del piacere dei poveri, avvelena la carne delle civette di Venere, le consegna agli Alfonsi di strada che le picchiano e le derubano; le sottopone all'ispezione della polizia, come la carne guasta del mercato.

Ma la cortigiana che possiede la grazia efficace del Dio-Capitale si tappa le orecchie alle vostre morali e ridicole declamazioni più vane delle grida delle oche spennate: ella avvolge la sua anima con un gelo polare che il fuoco di nessuna passione d'amore riesce a sciogliere; e maledetta, tre volte maledetta la Dama dalle Camelie, che si dà e non si vende; Dio abbandona la cortigiana innamorata che muore dal piacere; se il suo cuore spasima e se i suoi sensi parlano, il compratore d'amore che succede all'amante del cuore, indispettito e deluso, invece di una mercanzia fresca non trova che un corpo stantìo e esausto.

La cortigiana si corazza di affascinante freddezza, affinché sul suo corpo di porcellana, dove la passione non trova spazio, i suoi clienti usino le loro labbra brucianti senza alterarne la freschezza: è dalla fermentazione del loro sangue che devono prendere l'ebbrezza d'amore, e non dalla febbre delle sue carezze e dal calore dei suoi abbracci; perché bisogna che, mentre il cliente mangia di baci il suo corpo comperato, la sua anima libera pensi al denaro che le è dovuto.

La cortigiana deruba quelli che la comprano; li obbliga a pagare a peso d'oro il piacere d'amore che loro si portano dentro. E siccome, quando vende l'amore, la merce venduta non esiste, il nostro Dio-Capitale, per il quale il furto e la falsificazione sono le prime tra le virtù teologali, benedice la cortigiana.

Donne che mi ascoltate, vi ho rivelato il mistero dell'enigmatica freddezza della cortigiana, della cortigiana marmorea, che invita l'intera classe degli eletti del Capitale al banchetto del suo corpo e gli dice: "Prendete, mangiate e bevete, questa è la mia carne e questo è il mio sangue."

La sposa fedele e la brava donna di casa che la gente di società onora a parole ma che si affretta a evitare e a lasciare raffreddarsi al focolare coniugale, isola l'uomo dai suoi simili, produce e sviluppa nel suo seno la gelosia, questa passione antisociale, che avvelena di bile il sangue e l'imprigiona dentro di sé; ella lo rinchiude nell'egoismo famigliare. La cortigiana, invece, libera l'uomo dal giogo della famiglia e delle passioni.

Il denaro crea delle distanze tra gli uomini, la cortigiana le accorcia, li unisce. Nel suo salottino, coloro che sono divisi dall'interesse fraternizzano e un patto segreto, indefinibile, ma profondo, irrevocabile, li lega; essi hanno mangiato e bevuto della stessa cortigiana; si sono comunicati sullo stesso altare.

L'amore, la passione selvaggia e brutale, che sconvolge il cervello, che spinge l'uomo all'oblìo e al sacrificio dei suoi interessi, la cortigiana lo sostituisce con la facile, la borghese, la comoda galanteria venale, che scintilla come l'acqua di seltz e non ubriaca.

La cortigiana è il presente del Dio-Capitale, ella inizia i suoi eletti alle sapienti raffinatezze del lusso e della lussuria, lei li consola delle loro legittime mogli, noiose come le lunghe piogge autunnali. Quando la vecchiaia
arriva anche per loro, rugandole e raggrinzendole, spegne la fiamma degli occhi, toglie l'elasticità delle membra e la dolcezza del respiro e le rende oggetto di disgusto per le donne, la cortigiana allevia le tristezze dell'età; sul suo corpo freddo che nulla rifiuta, essi trovano ancora il fuggitivo piacere che il loro oro acquista.

Più efficace dei fermenti che fanno bollire il vino nuovo, la cortigiana imprime alle ricchezze un vertiginoso movimento rotatorio; getta nel folle valzer dei milioni, le fortune più solide; nelle sue mani incuranti, le miniere, le fabbriche, le banche, le rendite dello Stato, i vigneti e i campi di grano si dissolvono, colano tra le dita e si riversano nei mille canali del commercio e dell'industria. Il verminaio che va all'assalto delle carogne non è più fitto del nugolo di domestici, di bottegai, di usurai che l'assediano; tengono aperte le loro insondabili tasche per raccogliere la pioggia d'oro che cade quando ella solleva la sottana. Modello di abnegazione, rovina i suoi amanti per arricchire i domestici e i fornitori che la derubano.
Gli artisti e gli industriali si addormenterebbero nella grassa mediocrità, se la cortigiana non li costringesse a surriscaldare i loro cervelli per scoprire nuovi godimenti e inedite futilità; perché, assetata di ideale, ella non possiede un oggetto che per stancarsene; non prova un piacere che per saziarsene.

La macchina che abbrevia il lavoro condannerebbe le operaie e gli operai all'ozio, la madre dei vizi; ma elevando lo spreco alla dignità di una funzione sociale, la cortigiana aumenta il suo lusso e le sue esigenze a misura che la meccanica industriale progredisce, affinché ci sia sempre per i dannati del proletariato del lavoro, fonte di virtù.

La cortigiana che divora fortune, che sciupa e che distrugge come un esercito in marcia, i signori della fabbrica e dell'officina l'adorano; lei è il genio tutelare che sostenta la vita e il vigore del commercio e dell'industria.

La morale della religione del Capitale più pura e più elevata di quelle delle false religioni del passato, non proclama l'uguaglianza umana: la minoranza, l'infima minoranza soltanto è chiamata a dividersi i favori del Capitale. Il Fallo, come nei tempi primitivi, non rende più gli uomini uguali. La cortigiana non deve essere sporcata dai baci degli zotici e dei tangheri; perché Dio-Capitale serba per i suoi eletti le cose preziose e delicate della natura e dell'arte.

La cortigiana, che Dio conserva per la gioia dei ricchi e dei potenti, se è condannata a sollevare il velo delle ipocrisie sociali, a toccare il fondo delle
turpitudini umane tanto basse da levare il cuore, vive nel lusso e lo benedice; nobili e borghesi rispettabilli e rispettati, sollecitano l'onore di trasformare la Signora Tutti Quanti in Signora Qualcuno; e le càpita di chiudere la serie delle sue folli nozze con delle nozze ragionevoli. Ai suoi bei tempi, i capitalisti depongono ai suoi piedi il loro cuore che ella disdegna e i loro tesori che ella dissipa; gli artisti e i letterati ronzano attorno a lei, adulandola con omaggi servili e interessati. Verso la fine dei suoi anni, esausta e ingrassata, chiude bottega e apre casa e gli uomini seri e le donne puritane la circondano con la loro amicizia e colle loro attenzioni costanti, per onorare la fortuna che ricompensa il suo lavoro sessuale.

Dio colma la cortigiana delle sue grazie: a colei che l'imprevidente natura non ha dotato di bellezza e di spirito, dona raffinatezza, fascino, attrattiva, gusto che seducono e attirano l'animo distinto dei privilegiati del Capitale.

Dio la mette al riparo delle debolezze del suo sesso. La natura matrigna condanna la donna alla dura fatica della riproduzione della specie; ma i lancinanti dolori che tormentano il seno delle madri non vengono inflitti che all'amante, alla sposa. Dio, nella sua bontà, risparmia alla cortigiana le macchie e le deformazioni della gravidanza e la fatica del parto: le dona la sterilità, questa grazia tanto invidiata. E' l'amante, la sposa che devono implorare la vergine Maria e rivolgerle la fervida preghiera della donna adultera: "O vergine santa, che avete concepito senza peccato, fate che io pecchi senza concepire." La cortigiana appartiene al terzo sesso; lascia alla donna volgare lo sporco e penoso compito di partorire l'umanità. (5)

Il caso recluta le cortigiane tra le classi inferiori della società. Non è forse una vergogna e un dolore vedere quelle che occupano un rango tanto elevato nel mondo, provenire dal fango?

Donne che mi ascoltate, voi appartenete alle classi superiori, ricordatevi che la vecchia nobiltà rimproverava a Luigi XV di prendere le sue concubine dal fango; rivendicate come uno dei vostri più preziosi privilegi il diritto e l'onore di fornire le cortigiane degli eletti del Capitale. Già molte tra di voi, disprezzando i tristi doveri della sposa, si vendono come le cortigiane; ma queste fan commercio del loro sesso in modo timido, ipocrita. Imitate l'esempio delle oneste matrone dell'antica Roma che si facevano iscrivere tra gli edili per esercitare il mestiere di prostitute; scrollatevi di dosso, gettate via e calpestate coi piedi i pregiudizi idioti e fuori moda che sono propri delle schiave. Il Dio-Capitale apporta al mondo una morale nuova; esso proclama il dogma della Libertà umana: sappiate che non si ottiene la libertà che conquistando il diritto di vendersi. Liberatevi dalla schiavitù coniugale, vendendovi.

Nella società capitalista, non esiste lavoro più onesto di quello della cortigiana. Ecco, guardate il lavoro dell'operaio e contemplate poi quello della cortigiana. Alla fine della sua lunga e monotona giornata, l'operaia disprezzata, pallida e sfinita, non tiene nella sua mano smagrita che il modico salario che le impedisce di morire di fame. La cortigiana, allegra come un giovane dio, si alza dal suo letto o dal suo divano e, scuotendo la sua capigliatura profumata, conta noncurante i luigi d'oro e le banconote. Il suo lavoro non lascia sul suo corpo né fatica né sporcizia; si sciacqua la bocca e si asciuga le labbra e dice sorridendo: avanti un altro!

Filosofi rimuginanti, che senza posa masticate e rimasticate i precetti sorpassati dell'antica morale, diteci orsù quale opera è più gradita al nostro Dio-Capitale: quella dell'operaia o quella della cortigiana?


L'ECCLESIASTE O IL LIBRO DEL CAPITALISTA

L'ECCLESIASTE O IL LIBRO DEL CAPITALISTA

ecclesiaste

Questo libro è circolato tra le mani di parecchi capitalisti che l'hanno letto e annotato; ecco qualcuna delle loro osservazioni:
"E' certo che questi precetti della saggezza divina sarebbero male interpretati dall'intelligenza rozza dei salariati. Sono dell'opinione che si debbano tradurli in volapuk o qualsiasi altra lingua sacra."
Firmato: Jules Simon

"Bisognerebbe imitare i dottori ebrei che proibivano ai profani la lettura dell'Ecclesiaste dell'Antico Testamento e non comunicare il Libro del Capitalista che agli iniziati che possiedano un milione."
Firmato: Bleichroeder

"Un milioni di franchi o di marchi mi pare una somma ben misera, io propongo un milione di dollari."
Firmato: Jay Gould

A - NATURA DEL DIO CAPITALE

1. - Medita le parole del Capitale, Dio tuo.

2. - Io sono il Dio mangiatore di uomini: mi metto a tavola nelle fabbriche e mangio i salariati. Transustanzio in capitale divino la vita meschina del lavoratore. Io sono l'infinito mistero: la mia sostanza eterna non è che carne peritura; la mia onnipotenza, nient'altro che debolezza umana. La forza inerte del Capitale è la forza del salariato.

3. - Princìpio dei princìpi: con me ha inizio ogni produzione, con me finisce ogni scambio.

4. - Io sono il Dio vivente, presente in ogni luogo: le ferrovie, gli altiforni, i chicchi di grano, le navi, i vigneti, le monete d'oro e d'argento sono le membra sparse del Capitale universale.

5. - Io sono l'anima incommensurabile del mondo civile, dal corpo vario e multiplo all'infinito. Io vivo in ciò che si acquista e si vende; io agisco in ogni merce e non ne esiste neppure una al di fuori della mia unità vivente.

6. - Rifulgo nell'oro e puzzo nel letame; rallegro nel vino e corrodo nel vetriolo.

7. - La mia sostanza che si accresce continuamente cola, come fiume invisibile, attraverso la materia; divisa e suddivisa al di là di ogni immaginazione, si racchiude nelle forme speciali rivestite da ogni merce e, senza posa, trasmigro da una merce all'altra: pane e carne oggi, domani forza di lavoro del produttore, dopodomani lingotto di ferro, pezza di calicò, opera drammatica, quintale di sego, sacco di concime. La trasmigrazione del Capitale non si ferma mai.
La mia sostanza non muore mai; ma le sue forme sono periture, esse finiscono e passano.

8. - L'uomo vede, tocca, sente e gusta il mio corpo, ma il mio spirito più sottile dell'etere è inafferrabile dai sensi. Il mio spirito è il Credito; per manifestarsi, esso non ha bisogno di corpi.

9. - Chimico più erudito di Berzélius e di Gherardt, il mio spirito trasmuta i vasti campi, le colossali macchine, i metalli pesanti e le mandrie mugghianti in azioni cartacee; e, più leggere di palle di sambuco, animate dall'elettricità, i canali e gli altiforni, le miniere e le fabbriche saltano di mano in mano nella Borsa, il mio tempio sacro.

10. - Senza di me, non comincia nulla né finisce nulla nei paesi governati dalla Banca. Io fecondo il lavoro; io addomestico al servizio dell'uomo le forze irresistibili della natura e metto nelle sue mani la potente leva della scienza accumulata.

11. - Io avvolgo le società nella rete d'oro del commercio e dell'industria.

12. - L'uomo che non mi possiede, che non ha Capitale, cammina nudo per strada, circondato da nemici feroci e armati di tutti gli strumenti di tortura e di morte.

13. - L'uomo che non ha Capitale, se è forte come un toro, gli caricano sulle spalle un peso più grande; se è laborioso, come la formica, gli raddoppiano il lavoro, se è sobrio come l'asino, gli riducono la sua razione.

14. - Che cosa sono la scienza, la virtù e il lavoro senza il Capitale? Vanità e rodimento di spirito.

15. - Senza la grazia del Capitale, la scienza fa smarrire l'uomo nei sentieri della follia; il lavoro e la virtù lo gettano nell'abisso della miseria.

16. - Né la scienza né la virtù né il lavoro soddisfano lo spirito dell'uomo; sono io, il Capitale, che nutro la folla dei suoi appetiti e delle sue passioni.

17. - Io mi dò e mi riprendo secondo il mio piacere e non devo render conto. Io sono l'Onnipotente che comanda alle cose che vivono e alle cose che sono morte.

B - ELETTO DAL CAPITALE

1. - L'uomo, questo infetto ammasso di materia, viene al mondo nudo come un verme e, rinchiuso in una cassa come un fantoccio, marcirà sotto terra e la sua putredine ingrasserà l'erba dei campi.

2. - E tuttavia, è questo sacco di immondizia e di fetore che io ho scelto a rappresentare me, il Capitale, la cosa più sublime che esista sotto il sole.

3. - Le ostriche e le lumache hanno un valore per la qualità della loro natura bruta; il capitalista non conta che in quanto io l'ho scelto come mio eletto; egli non vale che per il Capitale che rappresenta.

4. - Io arricchisco lo scellerato nonostante la sua scelleratezza; io immiserisco il giusto nonostante la sua giustizia. Io scelgo chi mi pare.

5. - Io scelgo il capitalista non per la sua intelligenza né per la sua probità né per la sua bellezza né per la sua giovinezza. La sua imbecillità, i suoi vizi, la sua laidezza e la sua decrepitudine sono altrettanti testimoni della mia incalcolabile potenza.

6. - Dacché io ne faccio il mio eletto, il capitalista incarna la virtù,la bellezza, il genio. Gli uomini trovano la sua imbecillità spirituale, sostengono che il suo genio non ha niente a che fare con la scienza dei pedanti; i poeti gli chiedono ispirazione e gli artisti ricevono in ginocchio le sue critiche come i dettami del gusto; le donne giurano che è il Don Giovanni ideale; i filosofi erigono i suoi vizi a virtù; gli economisti scoprono che il suo ozio è la forza motrice del mondo sociale.

7. - Un esercito di salariati lavora per il capitalista che beve, mangia, gode e si riposa dalle sue fatiche del ventre e del basso ventre.

8. - Il capitalista non lavora né con le mani né col cervello.

9. - Egli ha bestiame maschile e femminile per lavorare la terra, forgiare il metallo e tessere le stoffe; ha dei direttori e dei capi per dirigere le fabbriche e dei saggi per pensare. Il capitalista si dedica al lavoro delle latrine; egli beve e mangia per produrre letame.

10. - Io ingrasso l'eletto con un benessere perpetuo; perché che c'è di meglio e di più reale sulla terra che bere, mangiare, godere e divertirsi? Il resto non è che vanità e rodimento di spirito.

11. - Addolcisco le amarezze e tolgo le pene da tutte le cose perché la vita sia gradevole e dolce per l'eletto.

12. - La vista ha il suo organo; l'odorato, il tatto, il gusto, l'udito, l'amore hanno anch'essi il loro organo. Non rifiuto nulla di quel che desiderano gli occhi, la bocca e gli altri organi dell'eletto.

13. - La virtù è a due facce: la virtù del capitalista è di accontentarsi; la virtù del salariato di privarsi.

14. - Il capitalista prende sulla terra ciò che gli pare; è lui il padrone. Se è stufo delle donne, ridesterà i suoi sensi con delle vergini bambine.

15. - Il capitalista è la legge. I legislatori redigono i Codici secondo la sua convenienza e i filosofi aggiustano la morale secondo i suoi costumi. Le sue azioni sono giuste e buone. Ogni atto che lede i suoi interessi è un crimine e sarà punito.

16. - Riservo agli eletti una felicità unica, ignota ai salariati. Fare profitti è la gioia suprema. Se l'eletto che incassa dei profitti perde sua moglie, sua madre, i suoi figli, il suo cane e il suo onore, si rassegna. Non riuscire più a realizzare profitti è la disgrazia irreparabile, da cui il capitalista non si consolerà mai.

C - DOVERI DEL CAPITALISTA

§ 1.

1. - Molti sono i chiamati e pochi sono gli eletti; tutti i giorni, io riduco il numero dei miei eletti.

2. - Io mi dono ai capitalisti e mi divido tra loro; ogni eletto riceve in deposito una briciola del Capitale unico; e ne conserva il godimento unicamente se la accresce, se la fa figliare. Il Capitale si ritira dalle mani di colui che non rispetta la sua legge.

3. - Ho scelto il capitalista per estrarre plusvalore; accumulare i profitti è la sua missione.

4. - Per essere libero e a suo agio nella caccia ai profitti, il capitalista rompe i legami dell'amicizia e dell'amore; non conosce amici né fratello né madre né moglie né figli dove c'è un guadagno da realizzare.

5. - Egli si erge al di sopra delle futili delimitazioni che rinchiudono i mortali in una patria o in un partito; prima di essere russo o polacco, francese o prussiano, inglese o irlandese, bianco o nero, l'eletto è sfruttatore; non è monarchico o repubblicano, conservatore o radicale, cattolico o libero pensatore se non come sovrappiù. L'oro ha un colore; ma dinanzi a esso, le opinioni dei capitalisti non hanno alcun colore.

6. - Il capitalista intasca con la stessa indifferenza il denaro bagnato di lacrime, il denaro sporco di sangue, il denaro macchiato di fango.

7. - Egli non sacrifica ai pregiudizi volgari. Non fabbrica per consegnare merci di buona qualità, ma per produrre merci che diano grossi profitti. Non fonda società finanziarie per differenziare i dividendi, ma per impadronirsi dei capitali degli azionisti; perché i piccoli capitali appartengono
ai grandi e, al di sopra di essi, vi sono dei capitali ancor più grandi che li sorvegliano per divorarli nel tempo. Questa è la legge del Capitale.

8. - Elevando l'uomo alla dignità di capitalista, io gli trasmetto una parte della mia onnipotenza sugli uomini e sulle cose.

9. - Il capitalista deve dire: la società sono io; la morale sono i miei gusti e le mie passioni; la legge è il mio interesse.

10. - Se un solo capitalista viene leso nei suoi interessi, la società tutta intera è in sofferenza; perché l'impossibilità di accrescere il Capitale è il male dei mali; il male contro il quale non esiste rimedio.

11. - Il capitalista fa produrre e non produce; fa lavorare e non lavora; ogni occupazione manuale o intellettuale gli è vietata, perché lo svierebbe dalla sua sacra missione: l'accumulazione dei profitti.

12. - Il capitalista non si trasforma in scoiattolo ideologico, girando una ruota che non muove che l'aria.

13. - Egli non si cura affatto che i cieli raccontino la gloria di Dio; egli non va a indagare se la cicala canta col didietro o colle ali e se la formica è una capitalista.(6)

14. - Egli non si cura né dell'inizio né della fine delle cose, egli non si occupa che di far loro produrre profitti.

15. - Egli lascia che i teologi dell'economia ufficiale perorino sul monometallismo e il bimetallismo; ma egli intasca, senza distinzione, le monete d'oro e d'argento alla sua portata.

16. - Egli lascia agli eruditi che non son capaci d'altro lo studio dei fenomeni della natura e agli inventori l'applicazione industriale delle forze naturali, ma si affretta ad accaparrarsi le loro scoperte appena diventano sfruttabili.

17. - Non si affatica la mente per sapere se il Bello e il Buono sono una sola identica cosa, ma egli si regala dei tartufi così buoni da mangiare e più brutti da vedersi che gli escrementi del porco.

18. - Applaude i discorsi sulle verità eterne, ma guadagna denaro con le falsificazioni quotidiane.

19. - Non specula sull'essenza della virtù, della coscienza e dell'amore, ma specula sulla loro vendita e sul loro acquisto.

20. - Non indaga se la Libertà sia buona in sé; si prende tutte le libertà per non lasciarne che il nome ai salariati.

21. - Non discute se il Diritto primeggi sulla Forza, perché sa di avere tutti i diritti, in quanto possiede il Capitale.

22. - Non è né a favore né contro il suffragio universale, né a favore né contro il suffragio ristretto, ma si serve di entrambe: compra gli elettori del suffragio ristretto e imbroglia quelli del suffragio universale. Se deve optare, si pronuncia per quest'ultimo, in quanto il più economico: perché se è obbligato a comprare gli elettori e gli eletti del suffragio ristretto, gli basta comprare gli eletti del suffragio universale.

23. - Non si immischia nel dibattito sul libero scambio e sul protezionismo: egli è di volta in volta liberoscambista e protezionista a seconda delle opportunità del suo commercio e della sua industria.

24. - Egli non ha princìpi: neppure il principio di non avere princìpi.

§ 2

25. - Il capitalista è nella mia mano la verga di bronzo che guida l'indocile mandria dei salariati.

26. - Il capitalista soffoca nel suo cuore ogni sentimento umano, è senza pubblico, tratta il suo simile più duramente della sua bestia da soma. Gli uomini, le donne e i bambini non gli appaiono che come delle macchine per profitti. Egli abitua il suo cuore, perché i suoi occhi contemplino la miseria dei salariati e perché le orecchie sentano le loro grida di rabbia e di dolore, e non sussulti.

27. - Come una pressa idraulica scende lentamente, inesorabilmente, riducendo al volume più minuscolo, al più perfetto disseccamento la polpa sottoposta alla sua azione; così, spremendo e torcendo il salariato, il capitalista estrae il lavoro che contengono i suoi muscoli e i suoi nervi; ogni goccia di sudore che estrae si trasforma in capitale. Quando, consumato e esausto, il salariato non rende più sotto la sua torsione il superlavoro che produce il plusvalore, egli lo butta in mezzo alla strada come gli avanzi e l'immondizia delle cucine.

28. - Il capitalista che risparmia il salariato mi tradisce e si tradisce.

29. - Il capitalista mercantilizza l'uomo, la donna e il bambino, affinché chi non possiede né sego né lana né alcuna altra merce, abbia almeno qualcosa da vendere, la sua forza muscolare, la sua intelligenza, la sua coscienza. Per trasformarsi in capitale, l'uomo deve prima diventare merce.

30. - Io sono il Capitale, il padrone dell'universo, il capitalista è il mio rappresentante: dinanzi a lui gli uomini sono uguali, tutti ugualmente curvi sotto il suo sfruttamento. Il manovale che loda la sua forza, l'ingegnere che offre la sua intelligenza, il cassiere che vende la sua onestà, il deputato che traffica con la sua coscienza, la donnina allegra che offre il suo sesso, sono per il capitalista dei salariati da sfruttare.

31. - Esso perfeziona il salariato: lo costringe a riprodurre la sua forza di lavoro con un'alimentazione rozza e avvelenata, perché la venda a meno e lo costringe ad acquisire l'ascetismo dell'anacoreta, la pazienza dell'asino e l'assiduità al lavoro del bue.

32. - Il salariato appartiene al capitalista: è la sua bestia da lavoro, il suo bene, la sua cosa. Nella fabbrica in cui non si deve capire quando si leva il sole né quando comincia la notte, egli guarda con cent'occhi il suo operaio, perché non si distragga dal suo lavoro con un gesto o con una parola.

33. - Per il salariato il tempo è denaro: ogni minuto che perde è un furto che commette.


LAMENTO DI GIOBBE ROTHSCHILD, IL CAPITALISTA

LAMENTO DI GIOBBE ROTHSCHILD, IL CAPITALISTA

classi sociali

Capitale, mio Dio e mio padrone, perché m'hai abbandonato? quale sbaglio ho dunque commesso perché tu mi precipiti dalle vette della prosperità e mi schiacci col peso della dura povertà?

Non ho vissuto secondo la tua legge? le mie azioni non sono state rette e legali?
Devo rimproverarmi di non aver mai lavorato? Non mi sono preso tutti i godimenti che mi permettevano i miei milioni e i miei sensi? Non ho tenuto al lavoro, notte e giorno, uomini, donne e bambini finché avevano forza e oltre? Gli ho mai dato qualcosa più di un salario di fame? Mi sono mai lasciato commuovere dalla miseria e dalla disperazione dei miei operai?


Primo paragrafo - Orazione domenicale

- ORAZIONE DOMENICALE -

Capitale, padre nostro, che siete di questo mondo, Dio onnipotente, che cambiate il corso dei fiumi e bucate le montagne, che separate i continenti e unite le nazioni; creatore delle merci e fonte di vita, che comandate ai re e ai sudditi, ai padroni e ai salariati, che il vostro regno si stabilisca su tutta la terra.

Dateci molti compratori che prendano le nostre merci, quelle cattive e anche quelle buone;

Dateci dei lavoratori miserabili che accettino senza ribellarsi tutti i lavori e si accontentino del più vile salario;

Dateci dei babbei che credano nei nostri prospetti;


Secondo paragrafo – Credo

Secondo paragrafo – Credo

- CREDO -

Io credo nel Capitale che governa la materia e lo spirito;

Io credo nel Profitto, suo figlio legittimissimo, e nel Credito, lo Spirito Santo, che procede da lui ed è adorato assieme a lui;

Io credo nell'Oro e nell'Argento, che, torturati nella Zecca, fusi nel crogiolo e strappati al bilancista, ricompaiono al mondo come Moneta legale e che, divenuti troppo pesanti, dopo aver circolato su tutta la terra, discendono nei depositi della Banca per risuscitare come Carta-moneta;

Io credo nella Rendita al cinque per cento, al quattro e anche al tre per cento e nell'autentico Listino dei valori;


Terzo paragrafo – Salutazione

Terzo paragrafo – Salutazione

SALUTAZIONE

(Ave Miseria)

Salve, Miseria, che schiacciate e soffocate il lavoratore, che dilaniate le sue viscere con la fame, infaticabile tormentatrice, che lo condannate a vendere la sua libertà e la sua vita per un boccone di pane; che spezzate lo spirito di rivolta, che infliggete al produttore, a sua moglie e ai suoi figli i lavori forzati dei penitenziari capitalisti, salve, Miseria, piena di grazia.

Vergine santa, che generate il Profitto capitalista, dea temibile che ci consegnate la classe avvilita dei salariati, siate benedetta.


Quarto paragrafo - Adorazione dell'oro

ADORAZIONE DELL'ORO

Oro, merce miracolosa, che porti in te le altre merci;

Oro, merce primigenia, in cui si converte ogni merce;

Dio che sa tutto misurare,

Tu, la perfettissima, la idealissima materializzazione del Dio capitale,

Tu, il più nobile, il più magnifico elemento della natura,

Tu, che non conosci né la muffa né le tarme né la ruggine;

Oro, inalterabile merce, fiore fiammeggiante, radioso sprazzo, sole risplendente; metallo sempre vergine, che, strappato alle viscere della terra, l'antica madre delle cose, ritorni a nasconderti, lontano dalla luce, nelle casseforti degli usurai e nelle cantine della Banca e che, dal fondo del nascondiglio dove ti pigi, trasmetti alla vile e miserabile carta la tua forza che raddoppia e decuplica;


Georges Bataille - La Sociologia Sacra del mondo contemporaneo

Georges Bataille - La Sociologia Sacra del mondo contemporaneo

(traduzione di ANDREA CHERSI)

Bataille tiene questa conferenza il 2 aprile 1938 (poco prima degli Accordi di Monaco) come parte di un ciclo al Collège de Sociologie, da lui fondato assieme a Michel Leiris e Roger Caillois.
Il testo è inedito, ma incompleto, interrompendosi a metà di una frase, un paio di pagine prima della fine.